L’arte è morta?
“L’arte è morta”, una frase che risuona oramai da anni. «Non è morta, si è semplicemente appisolata, aspettiamo si risvegli». Questa è la mia risposta.
Durante il secolo scorso abbiamo assistito a molteplici movimenti, tecniche, nuovi metodi espositivi con inserzioni di concetti ovunque. In questo modo l’arte da un lato si è elevata mediante meccanismi psichici e riflessivi, dall’altro però, si è allontanata da chi la fa vivere: la società. Un’opera vive se è apprezzata, commentata, riconosciuta, anche giudicata se necessario, altrimenti si rischia di trasformare musei e gallerie in miseri magazzini.
I miei lavori non vogliono nascondere un concetto dietro ma essere chiari, diretti, vogliono comunicare e dialogare con i fruitori, vogliono porre domande senza dare risposta, a volte anche far ridere.
Non pretendo di possedere una tecnica precisa ma preferisco cambiare materiali e supporti in base a cosa, a come e soprattutto a dove comunicare: lo spazio è fondamentale perché racchiude o riprende una storia, una tradizione. Per questo motivo non amo che i fruitori vengano in studio per vedere i lavori ma al contrario, sono le opere che vanno incontro alla società, per inserire la finzione artistica nel contesto reale.
Osservare la società, le varie realtà che si mescolano, come quella reale e virtuale, vero e finto, giocarci, scherzarci è una mia sana prerogativa. Valéry diceva: «gli stupidi credono che scherzare non significhi essere seri». La società ha bisogno di divertimento e il mondo artistico glielo può dare, anche attraverso il divertimento può scaturire la sensibilità. È quello che l’arte fa da secoli: rendere sensibile.
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